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PEDAGOGIA DELLA MORTE
cos'è, cosa significa e soprattutto...
ma perchè?

La morte è un tema che nel nostro secolo e continente viene più facilmente evitato piuttosto che affrontato. La cultura e il contesto condizionano il nostro pensiero e il nostro parlare, ma la percezione relativa alla morte muta totalmente se andiamo indietro nel tempo o cambiamo Paese.

Parlare quindi di una pedagogia della morte significa, se non risolvere, quanto meno prendere consapevolezza di una sua mancanza e di quali passi si possano fare per ricostruirla.
Le mancanze della nostra cultura, i tabù e le difficoltà che si sono interposte tra le persone e si sono acuite nel tempo, rischiano di tenere lontano un argomento vicino a ciascuno ed evitare a priori domande, dialogo e confronto, negando così a sé e agli altri una maggiore comprensione e, forse, serenità.

Un momento spiacevole e triste di per sé, ma maggiorato del suo peso perché spesso anche vissuto in solitudine:
 

 

 

 

 

L’esperienza di un lutto, l’innocenza di un bambino che dà voce al suo dolore e alle sue paure chiedendo se la persona morta un giorno tornerà, la richiesta di vicinanza di un amico, la domanda di un figlio, il desiderio di dialogo di un malato, la rabbia di un parente: quasi sempre le persone si trovano impreparate, in imbarazzo e l’atteggiamento comune è quello di evadere la situazione, non esserci, scappare.

Quando la persona manifesta, per tramite della sua curiosità o a causa di un suo malessere, il bisogno di parlare,
 

 

Quando si subisce una perdita, mancano spesso quei supporti collettivi un tempo fortemente radicati nella struttura sociale che facevano del dolore un’esperienza condivisa. Un tempo, la comunità umana in cui si viveva e in cui si moriva, lo spirito religioso diffuso e creduto, la fatica e il travaglio di un’esistenza toccata dal sacrificio, rendevano il lutto un momento accompagnato e sorretto. Oggi l’individuo si trova solo davanti alla perdita.

La pedagogia, ponendosi come strumento di mediazione tra il singolo e i suoi vissuti, insegna come la presenza di una guida sia indispensabile.
Il pensiero al quale siamo stati educati e secondo cui continuiamo a formare le nuove generazioni è un criterio d’infinito che domina le nostre credenze, speranze e saperi.
L’assenza di un argomento, che fa parte della vita di tutti, dalla conversazione e dal discorso pubblico, è in realtà una presenza molto forte. Per quanto la cultura dominante in occidente propagandi come obiettivo l’immortalità, per quanto l’esempio pubblico esalti l’inalterabilità e per quanto il sistema educativo rifugga l’idea di istruire le nuove generazioni alla precarietà dell’essere umano, il fine corsa arriva per tutti, quindi tanto vale esserne consapevoli, capirlo e non nasconderlo. I progressi della medicina, della biologia molecolare e della genetica hanno indubbiamente migliorato le aspettative di vita, pur tuttavia hanno un grande carico di responsabilità nell’avere ingenerato l’atteggiamento comune di a-mortalità, cioè di rimozione e indifferenza all’idea di morte.

 

 

 

Parte dello sviluppo culturale è anche il cambiamento di approccio relativo alla mortalità infantile.
Ancora nella seconda metà dell’800, quasi un nato su due non raggiungeva il compimento del quarto anno di vita. In 140 anni di storia il tasso di mortalità infantile è passato da circa 400 decessi (sotto i cinque anni di vita) ogni mille nati vivi, a 4. Quando interagiamo con qualcuno che ha perso un parente, se possibile evitiamo l’incontro, perché parlarne ci imbarazza, non sappiamo cosa dire, abbiamo “perso le parole” adatte alla situazione, siamo passati da una condivisione del lutto ad una sempre maggiore riservatezza e solitudine. Siamo sempre meno capaci di vivere la sofferenza.

L’amministrazione totale della morte inizia con la sua rinominazione.
Chiamare la morte con un altro nome significa addomesticarla: “è mancata”, “chiamato a Dio”, “è partito”; così se ne parla in casa e in ospedale, ma solo quando è strettamente necessario dare un nome all’accaduto. Quando qualcosa ci fa paura inventiamo nuovi vocaboli, un articolato apparato eufemistico sempre pronto a venire in nostro soccorso. 

                                         di ciò che abbiamo davanti, definirne i confini e le caratteristiche, rapportarci in modo reale senza cercare solo di schivarlo passandoci accanto.

Vi è una grande necessità di educare alle tematiche della morte: adulti e bambini.
Si tratta di un vuoto pedagogico che incide sia a livello di cultura e immaginario collettivo, sia a livello interiore e di vissuti personali. L’adulto è fortemente riluttante ad avvicinare il bambino alla tematica della morte. Credendo che i bambini possano venirne danneggiati, gli adulti nascondono loro gli avvenimenti naturali della vita, ma che prima o dopo dovranno inevitabilmente conoscere e persino capire.
L’immagine che proviamo a dare della nostra società vuole essere positiva: preferiamo dare una delusione domani che una consapevolezza oggi. Ciò che è svantaggioso e avverso, ciascuno o l’ha già scoperto, oppure lo scoprirà, inevitabilmente da se; si ha paura di generare angoscia preventiva ad anticipare gli argomenti, a parlarne prima del tempo. Se poi non sono stato educato ad affrontare una data tematica, alla sua accettazione imprescindibile e se non ho risolto neanche io questa angoscia, come posso contenere quella dell’altro?

Parlare di morte è difficile, tanto più ai bambini: i genitori delegano la questione ad altri ambienti educativi, per timore di sbagliare i modi e i tempi, per paura di non esser le figure adatte e non di saper usare le parole giuste, perché nessuno probabilmente lo fece con loro e quindi, non sanno come si fa; ma, allora, a “chi tocca”?
Dopo la famiglia, l’agenzia educativa cui ogni bambino e ragazzo dovrebbe far capo, rispettare e frequentare, è la scuola, ma i curricula non prevendono di certo un’educazione al limite e alla caducità: in classe si è impostata una pedagogia dell’infinito, che insegna come funzionano le cose, ma non come finiscono. Insomma, non c’è spazio, nei programmi di studio, per l’educazione emotiva all’insuccesso e alla sofferenza.
Urge l’esigenza di tornare a considerare la morte come un fatto pubblico di cui dover parlare, specie ai bambini
Se si riesce, si evita il discorso, colti in flagrante gli adulti mentono o scappano di fronte agli interrogativi dei piccoli.

Come riporta lo studio di M.H. Nagy sul senso della morte nell’infanzia, nei bambini possiamo distinguere tre fasi di concettualizzazione della morte:
- prima dei 5 anni si tratta di un fatto reversibile, annoverato al sonno;
- tra i 5 e i 9 anni la morte diviene un dato irreversibile, una sottrazione senza possibilità di ritorno. In questo stadio viene operata una confusione tra il morto e l’evento morte, la quale comincia ad essere personificata come spettro.
- Il terzo stadio ha inizio dai 9 anni e la morte è ora un processo totalmente irreversibile.

«Perché – scrive Ariès (1975b) – quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano, e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio?»

 

L’aver eliminato dai discorsi, dalle nostre case e dalla nostra società l’argomento, fa si che quando la morte irrompe nella vita di un bambino, questo non solo non abbia gli strumenti per affrontarla, ma gli viene negato anche il confronto, superando la difficoltà con una storia più dolce della verità da vivere. Quanto più forte è operato questo diniego, tanto più saremo impreparati alla morte, e tanto più priveremo i nostri figli di creare quegli strumenti interiori necessari all’elaborazione del lutto e alla concettualizzazione della morte.

 

La desocializzazione della morte fa sì che questa divenga sempre più un fatto privato e ciò si contrappone alle richieste delle nuove generazioni che, per natura, chiedono invece che se ne parli, in favore dell’uscita dal sentimento angoscioso del silenzio che caratterizza l’argomento.
I bambini hanno molta più confidenza e meno timore di un argomento che noi viviamo con distacco e spavento.
La paura giunge crescendo, perché si ha scarsa familiarità con il tema e una certa riluttanza nell’affrontarlo. I piccoli non vivono ancora i tabù sociali degli adulti, sono più liberi, curiosi e animati dall’ingenuità e della serenità che gli è propria. È necessario esser consapevoli che occorre imparare a rapportarsi con la propria sofferenza, semplicemente per i più piccoli è più facile da imparare perché non ancora plasmati da un mondo esterno con le proprie regole, paure e angosce. Se è dannoso mentire, di certo parlare apertamente della morte ad un bambino, non è la soluzione.
Il racconto simbolico media la situazione e risponde con la giusta delicatezza: dice la verità, ma a misura di bambino, non nasconde la fatica della prova da superare e non prova a eliminare il dolore, gli dà un significante.

«Giochiamo alla guerra?». «Sì, giochiamo alla guerra: facciamo che io ti sparo e tu muori!». Il senso della morte, quando si hanno pochi anni, è un gioco: che siano i cowboy a morire, o gli indiani, poco importa, a un certo punto arriva l’ora di cena e si cena.
Il gioco di finzione in parte nasce dall’esigenza di mettere in scena e condividere certe emozioni (paura, gelosia, preoccupazione, ...) e, a sua volta, genera forti emozioni che i bambini amano condividere. “Ora facciamo che tu eri morto”, il tipico imperfetto utilizzato nei giochi dei più piccoli, quello che stabilisce la lontananza dal reale e il consente l’ingresso in un mondo immaginario dove tutto si può agire, tornare indietro e ripete.
Il gioco offre ai bambini la possibilità di cambiare la propria passività di fronte agli eventi in attività e creatività: nel gioco i bambini possono essere pienamente se stessi, elaborare e padroneggiare gli eventi critici.
Compito del genitore è quello di favorire l’opportunità di gioco libero, e non strutturato, in cui il bambino possa esprimere, senza utilizzare necessariamente parole, i propri sentimenti più profondi.
Anche giocare insieme può essere uno strumento utile per favorire l’elaborazione del lutto.

Nessun genitore è in grado di evitare ai propri figli la sofferenza che deriva da eventi traumatici come la morte. Attraverso il loro sforzo è però possibile che i bambini giungano preparati all’occorrenza di alcuni eventi dolorosi e che possano essere sostenuti e facilitati nel loro processo di elaborazione di tali avvenimenti.
La morte che viviamo attraverso i media diventa passibile di dialogo perché crea una distanza emotiva, e questo minor coinvolgimento fa si che anche il tabù del nostro secolo diventi argomento trattabile. Le morti familiari o ospedaliere, nessuno le porta in un discorso: quelle ci coinvolgono, ci sono vicine, l’evento di cronaca no.
Queste esperienze di morte indirette ci permettono di lavorare sul senso della morte per ciascun ragazzo prima che avvenga un incontro diretto con la stessa. Dialogare dopo aver visto un film, parlare con testimoni di alcune esperienze (medici, operatori in zone di guerra, ebrei scampati alla shoah, ecc.) è un aiuto per creare delle palestre di senso, dove i ragazzi possono confrontarsi, affrontarsi nelle loro paure e proiezioni e trovare una risposta di senso alla morte stessa.

I giochi di squadra e quelli svolti in solitudine, simbolici e di finzione, fisici e immaginari, si distinguono da quelli del mondo virtuale perché nei primi si vive la sconfitta, la fine della partita, il dolore della lotta, la delusione dell’aver perso, mentre nei videogame “ci si rialza sempre”. “Game over. Insert coin to continue” e si ricomincia dall’ultimo salvataggio come se nulla fosse stato.
La morte nel videogame è routine, dopo il game over il giocatore ha la possibilità di rivedere la strategia, imparare dalle varie sessioni di gioco e ripetere la missione finché non la supera: “Sei morto. Vuoi continuare?”  Questa è l’esperienza di morte che vivono i bambini, l’esperienza che ne fanno è quella del gioco, del film, di internet e del videogame.

La ri-giocabilità vanifica l’esperienza di morte e il non avere binari diventa un pericolo. Ovviamente si potrebbe pensare che anche dopo una sconfitta a palla prigioniera si ri-giochi. La differenza è nella fatica di affrontare la sconfitta-morte. Il bambino deve accettare i tre fischi dell’arbitro. Oggi la fatica del “risorgere” nel gioco è un click senza nessun prezzo da pagare. La morte, perciò, non ha più importanza.

 

per quanto possa apparire sconcertante, un bambino che domanda sulla morte sta solo ampliando il proprio bagaglio di comprensione del mondo:
non rispondere alimenta angosce, paure e curiosità.È quindi oggi necessario, in questo senso, cercare vie d’uscita al dolore, prima fra tutte è l’attraversarlo, nominarlo, domarlo e trasformarlo in forza (Bonfantini, 2014).
Questa conversione è per l’uomo attuabile attraverso la presa di consapevolezza, il gioco, ma anche l’ironia, da sempre strumento per affrontare gli ostacoli, sdrammatizzare le situazioni difficili, diminuire l’ansia e combattere lo stress in quanto, alla base di essa, agisce un meccanismo che possiamo chiamare dissociazione dall'evento o distanziamento.
Uno degli esempi più semplici ma forse anche esemplari in questo senso, sono le commedie e le sitcom, i telefilm e le citazioni, le vignette e i fumetti che hanno fatto della morte un argomento sul quale sorridere:
attraverso l’ironia si fa più sottile quel velo di negatività caratteristico dell’argomento e lo si rende “dicibile”, attraverso il gioco lo si rende “vivibile” e con un po' di coraggio anche un argomento “dicibile”.

                                                                                                                                                  

                                                                                                                                                 Elisabetta Pia

NON SIAMO EDUCATI A PARLARNE, 
NON SAPPIAMO GESTIRLO 
E DI CONSEGUENZA CERCHIAMO DI EVITARLO

E' DETERMINANTE ASSECONDARE QUESTO PROCESSO

MA LA MORTE è RIMASTA,
QUINDI NON POTENDOLA IMPEDIRE, LA SI EVITA.

PERCHE' DARE UN NOME SIGNIFICA RICONOSCERE L'IDENTITA'

OGGI NON SONO PIU' I BAMBINI A NASCERE SOTTO UN TAVOLO, MA I MORTI A SCOMPARIRE TRA I FIORI.

IL BAMBINO APPRENDE OSSERVANDO, SPERIMENTANDO, GIOCANDO E DOMANDANDO:

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